Il tempo qui vive di contratture e d’un dilatarsi
strano, come moltiplicato. Corri, sei sempre in ritardo, stai perdendo
qualcosa. Oppure te ne stai mezzora a far nulla sotto il portico, solo guardando
le nuvole, lanciando lo sguardo oltre il parcheggio in fondo, aspettando che
arrivi qualcuno. Poi qualcuno arriva sempre. E magari è l’amico eccezionalmente
alto senza cui questo posto non avrebbe senso; oppure lo studente gentile che forse
non capisce tutto ma sorride sempre d’un sorriso gioioso, lieto. Arrivi comunque
alla fine di un giorno e ti sembra di averne vissuti almeno centomila. Nel
mezzo hai cambiato umore, abito, cielo e temperatura. Molte volte. Senza
riposo. Hai sfogliato programmi e persone con cui sederti a pranzo. Hai usato
mille parole per dirne una. Sicché ti
piglia la voglia di sdraiarti sul letto e dormire per almeno una settimana.
Chiudere gli occhi e non dire nulla. Solo silenzio e pace e le lenzuola del
mercoledì che sono fresche di bucato. Ma
poi c’è la radio da preparare, il brunch da fare, Burlington da raggiungere. O
un film, un incontro, una lezione, l’odore di funghi da spiegare ai ragazzi
prima che sia il momento di cantare. Così ci sprofondi dentro, a questo
sbattere di cose, e te ne lasci sopraffare. Ma sì, non ci perdiamo nulla. Tanto
ti senti che questo tuo ritorno a Middlebury è un addio. Allora quel vialetto,
il campanile della chiesa, tutti quei tralicci e la mensa dalle grandi vetrate
assumono contorni quasi mitici anche mentre ce li hai davanti agli occhi: allunghi
una mano ma già non li tocchi più. Sei via. Non esiste la rana che ti ha
attraversato la strada, né la nube a forma di drago sopra il teatro e neppure
la musica delle campane alle due e cinquantacinque del pomeriggio quando vai a
lezione. Di sicuro, appena volti l’angolo smontano tutto e puf, via, sparito. È
il bello e il terribile di questo posto: non esiste fuori da qui.
Brividi.
RispondiElimina