lunedì 9 luglio 2012

E una notte lasciasti portarti via

Questo posto l’ho detto che è esagerato. Mutevole come le nuvole che si deformano e spazzano il cielo di continuo. Capita che te ne stai appoggiata molle su un autobus che torna nel tramonto da Burlington a Middlebury, con la Nina che ti dorme addosso, dopo una giornata di fuga da tutti, verso gli acquisti e il Frappuccino di Starbucks e un Gap che ti stava immobile nella memoria perché era ciò che eri, una volta. E scorre il paesaggio il verde le mucche i granai rossi le case di legno il maple syrup che dondola sui cartelli e perfino i motel con la piscina sulla strada, sì, anche qui in Vermont. Scorre via tutto, felicità compresa, che s’impasta di quel senso di tempo che passa e rotola. Poi la sera balli e bevi. Il sudore s’appiccica ai capelli miei e della Nina, che ha gli occhi gioiosi e le gambe svelte. Siamo tutti in una bolla di luci rosse e blu che s’accendono si spengono. Tutti ridono, tutti saltano. Il long island ice tea è più buono dell’ultimo che hai preso. Acchiappi il nocciolo dolce dell’estate, della scuola, di Middlebury, di tutto. Cambi le scarpe per tornare a piedi nella notte. Sorridi sempre. Succede ancora che ti metti l’abito a fiori e ti arrampichi su verso Mc Collough e il ricevimento pomeridiano delle scuole di lingua. C’è vino bianco francese, vino rosso portoghese più un duo russo che suona Kalinka e indossa stivali di pelle. Il pessimo Chardonnay e i raspberries con panna amplificano il senso di stordimento lieto, di stentoreo credersi per un attimo nel posto giusto. Del resto le striature che colano rossoviola dietro i vetri dicono che certo, è così, non ti stai sbagliando: guarda là che bellezza. Pigliatela tutta, stampatela negli occhi. Invece poi magari la sera dopo correte via in due dalla mensa, dal pollo al curry che puzza, dalla gente, dal parlarsi sempre. Il campus è vuoto, l’aria vi viene incontro fredda; forse l’estate è finita e bisogna già partire. Vi rifugiate sole al Grille. Aspettate i vostri hamburger. Sotto vanno canzoni americane. Il toc, toc, staaaaaaac delle palle del biliardo scandisce il tempo della vostra permanenza là dentro. E’ bello. E’ un po’ triste quell’essere lì e non incontrare nessuno dei visi che un tempo sembravano viverci dentro. E’ uno di quei momenti in cui ti manca tutto. Però pazienza, però chi se ne frega. Apri con un gesto secco un’altra bustina di Hellmann’s e vabbe’. Ma soprattutto alla fine ti viene in mente che per il laboratorio sulla canzone devi mettere per forza Guccini. Così cominci a rileggere un po’ di testi. Cominci a riascoltare. Commetti un’idiozia dopo l’altra. Da bionda senza averne l’aria alle luci nel buio di case intraviste da un treno al lucido scirocco. E infine Farewell che avevi dimenticato e ti succede di ritrovare qui, in una camera con le tapparelle bianche in Shannon street, Middlebury, Vermont, America. Tutte quelle lacrime, si vede, se ne stavano da qualche parte e per qualche cosa dovevano proprio venire giù. Il maglione sformato, la chiave segreta del mondo, i vent’anni in cui si sapeva sorridere valgono bene lo struggimento che piglia in questa notte che ti schiaccia giù e ti fa sentire sola, minuscola, grata per tutto quello che gli anni hanno risparmiato di te, senza stritolarlo troppo.

1 commento:

  1. In questo luogo non c'è posto per tinte pastello. Son tutti schiaffi. Che sia un cielo violento o un'invasione di bestioline pelose.

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