Il tempo qui vive di contratture e d’un dilatarsi
strano, come moltiplicato. Corri, sei sempre in ritardo, stai perdendo
qualcosa. Oppure te ne stai mezzora a far nulla sotto il portico, solo guardando
le nuvole, lanciando lo sguardo oltre il parcheggio in fondo, aspettando che
arrivi qualcuno. Poi qualcuno arriva sempre. E magari è l’amico eccezionalmente
alto senza cui questo posto non avrebbe senso; oppure lo studente gentile che forse
non capisce tutto ma sorride sempre d’un sorriso gioioso, lieto. Arrivi comunque
alla fine di un giorno e ti sembra di averne vissuti almeno centomila. Nel
mezzo hai cambiato umore, abito, cielo e temperatura. Molte volte. Senza
riposo. Hai sfogliato programmi e persone con cui sederti a pranzo. Hai usato
mille parole per dirne una. Sicché ti
piglia la voglia di sdraiarti sul letto e dormire per almeno una settimana.
Chiudere gli occhi e non dire nulla. Solo silenzio e pace e le lenzuola del
mercoledì che sono fresche di bucato. Ma
poi c’è la radio da preparare, il brunch da fare, Burlington da raggiungere. O
un film, un incontro, una lezione, l’odore di funghi da spiegare ai ragazzi
prima che sia il momento di cantare. Così ci sprofondi dentro, a questo
sbattere di cose, e te ne lasci sopraffare. Ma sì, non ci perdiamo nulla. Tanto
ti senti che questo tuo ritorno a Middlebury è un addio. Allora quel vialetto,
il campanile della chiesa, tutti quei tralicci e la mensa dalle grandi vetrate
assumono contorni quasi mitici anche mentre ce li hai davanti agli occhi: allunghi
una mano ma già non li tocchi più. Sei via. Non esiste la rana che ti ha
attraversato la strada, né la nube a forma di drago sopra il teatro e neppure
la musica delle campane alle due e cinquantacinque del pomeriggio quando vai a
lezione. Di sicuro, appena volti l’angolo smontano tutto e puf, via, sparito. È
il bello e il terribile di questo posto: non esiste fuori da qui.
martedì 24 luglio 2012
sabato 14 luglio 2012
Madison-Dixon Line
Neppure mezzogiorno e camminiamo
sotto il sole verso il paese. Dice c’è un festival di musica, la sera, e
vogliamo vedere se c’è un cartellone, un programma, qualcosa. Andiamo giù per
la discesa con la casa di legno e pietra - la casa del misterioso gatto grigio;
superiamo Ben & Franklin; oltrepassiamo il ponte e il fiume; entriamo nel
parco davanti alla chiesa. E caschiamo a testa in giù dentro Mark Twain.
Sparisce la scuola italiana, spariscono le lezioni di tecnologia, i film di
Fellini, la mensa, la grande biblioteca con il Mac gigante che è il mio
preferito e restano solo la musica, i cappelli di paglia e i piedi incrostati
di nero dei bambini. Ci sediamo sotto un grande tendone, sopra seggiolacce di
legno sbreccato, e ascoltiamo suonare le musiche del sud. Al di sopra della Madison-Dixon
line non esiste più nulla. L’uomo dagli occhi di pietra blu suona una piccola
tromba, bambini in costume con l’asciugamano al collo arrivano dappertutto e si
siedono per bene intorno a noi: se ne stanno lì buoni ad ascoltare vecchie
canzoni e farsi distribuire bicchieri di latte da enormi contenitori bianchi;
ed eccolo lì, stai attenta, se guardi bene vedi pure Tom Sawyer dietro di te –
il viso sporco e la mela rossa luccicante fra i denti. L’uomo del banjo ha un
volto strano, sfatto, sembra Tom Waits prima di Tom Waits; ha occhiaie scure e
profonde, come la sua voce. Sul palco si suona di tutto, dai cucchiai, alle
ossa di mucca, al bottiglione di maple syrup vuoto. Fa uno strano soffio,
caldo, sinuoso. Che bene s’accorda con questa mattina calda e ferma nel tempo.
Appiccicosa di Mississippi. Hanno tutti facce antiche: la bellissima bambina
bionda dalle lentiggini, il ragazzino grasso con la testa tonda e gli occhi
piccoli e il suonatore di sousaphone che pare un predicatore. Ti sembra che
potresti vivere così, sorseggiando caffè bollente e ascoltando suonare il
fiddle che poi sarebbe un violino, quasi per sempre. Quei piedi battuti sul
palco, quei musi sudici di bestioline che addentano mele, il suono buffo della
cornetta, lo strappo del banjo, le mani che picchiano, il caldo che ringhia:
l’America è tutta qui. Puoi vederla e agguantarla. Senti come scende giù bene
questa sensazione di buono, e di casa. Senti come s’accoccola nello stomaco. E’
il 1876, tu sei Becky Thatcher e stai per perderti dentro la grotta insieme a
Tom. Non ci sarà mai più nulla di tanto avventuroso nella tua vita, questo lo
sai per certo.
lunedì 9 luglio 2012
E una notte lasciasti portarti via
Questo posto l’ho detto che è esagerato. Mutevole come le nuvole che si deformano e spazzano il cielo di continuo. Capita che te ne stai appoggiata molle su un autobus che torna nel tramonto da Burlington a Middlebury, con la Nina che ti dorme addosso, dopo una giornata di fuga da tutti, verso gli acquisti e il Frappuccino di Starbucks e un Gap che ti stava immobile nella memoria perché era ciò che eri, una volta. E scorre il paesaggio il verde le mucche i granai rossi le case di legno il maple syrup che dondola sui cartelli e perfino i motel con la piscina sulla strada, sì, anche qui in Vermont. Scorre via tutto, felicità compresa, che s’impasta di quel senso di tempo che passa e rotola. Poi la sera balli e bevi. Il sudore s’appiccica ai capelli miei e della Nina, che ha gli occhi gioiosi e le gambe svelte. Siamo tutti in una bolla di luci rosse e blu che s’accendono si spengono. Tutti ridono, tutti saltano. Il long island ice tea è più buono dell’ultimo che hai preso. Acchiappi il nocciolo dolce dell’estate, della scuola, di Middlebury, di tutto. Cambi le scarpe per tornare a piedi nella notte. Sorridi sempre. Succede ancora che ti metti l’abito a fiori e ti arrampichi su verso Mc Collough e il ricevimento pomeridiano delle scuole di lingua. C’è vino bianco francese, vino rosso portoghese più un duo russo che suona Kalinka e indossa stivali di pelle. Il pessimo Chardonnay e i raspberries con panna amplificano il senso di stordimento lieto, di stentoreo credersi per un attimo nel posto giusto. Del resto le striature che colano rossoviola dietro i vetri dicono che certo, è così, non ti stai sbagliando: guarda là che bellezza. Pigliatela tutta, stampatela negli occhi. Invece poi magari la sera dopo correte via in due dalla mensa, dal pollo al curry che puzza, dalla gente, dal parlarsi sempre. Il campus è vuoto, l’aria vi viene incontro fredda; forse l’estate è finita e bisogna già partire. Vi rifugiate sole al Grille. Aspettate i vostri hamburger. Sotto vanno canzoni americane. Il toc, toc, staaaaaaac delle palle del biliardo scandisce il tempo della vostra permanenza là dentro. E’ bello. E’ un po’ triste quell’essere lì e non incontrare nessuno dei visi che un tempo sembravano viverci dentro. E’ uno di quei momenti in cui ti manca tutto. Però pazienza, però chi se ne frega. Apri con un gesto secco un’altra bustina di Hellmann’s e vabbe’. Ma soprattutto alla fine ti viene in mente che per il laboratorio sulla canzone devi mettere per forza Guccini. Così cominci a rileggere un po’ di testi. Cominci a riascoltare. Commetti un’idiozia dopo l’altra. Da bionda senza averne l’aria alle luci nel buio di case intraviste da un treno al lucido scirocco. E infine Farewell che avevi dimenticato e ti succede di ritrovare qui, in una camera con le tapparelle bianche in Shannon street, Middlebury, Vermont, America. Tutte quelle lacrime, si vede, se ne stavano da qualche parte e per qualche cosa dovevano proprio venire giù. Il maglione sformato, la chiave segreta del mondo, i vent’anni in cui si sapeva sorridere valgono bene lo struggimento che piglia in questa notte che ti schiaccia giù e ti fa sentire sola, minuscola, grata per tutto quello che gli anni hanno risparmiato di te, senza stritolarlo troppo.
venerdì 6 luglio 2012
Vestito giallo
La cena con New York strip steak boneless, Cape Cod Kettle e Corona gelata è stata senza dubbio la parte migliore della giornata. Mentre fuori sfuriava un caldo malato, noi dentro si rideva del rivolo di sangue che la Nina lasciava colare - perfetto predatore con la tanto desiderata vittima fra i denti.
O forse invece no, mi sbaglio, e il momento più bello della rutilante giornata del Concertone è stato il finale. Quell’incredibile, surreale momento in cui una bambina dal lungo vestito giallo è sfrecciata sul palco con i fiori in mano. Alla velocità di un razzo, una stella cadente, un desiderio. Applausi, sorrisi, ciao.
O forse invece no, mi sbaglio, e il momento più bello della rutilante giornata del Concertone è stato il finale. Quell’incredibile, surreale momento in cui una bambina dal lungo vestito giallo è sfrecciata sul palco con i fiori in mano. Alla velocità di un razzo, una stella cadente, un desiderio. Applausi, sorrisi, ciao.
giovedì 5 luglio 2012
Alla finestra
I corvi qui gracchiano soprattutto prima del tramonto. Sono tanti, grossi e se ne stanno là in mezzo al verde brillante con quell’aria da: qui c’è mio e te vattene più in là. I corvi mi piacciono di più degli scoiattoli, che ti tagliano la strada all’improvviso e hanno denti rapaci; occhi vacui da piccolo animale stupido, che potrebbe sbranarti se solo allungassi la mano per accarezzarlo.
Questo è un luogo esagerato; e mi piace. Se piove, o ti rinchiudi in casa oppure esci ma l’ombrello che lo pigli a fare. Tanto l’acqua ti sciaguatta tutto, ti sbatte in qua e in là e mica puoi difenderti. Il sole invece brucia sulla pelle, cammini come sotto una lente di vetro puntata addosso, ti lasci arroventare finché non entri nella Davis family library, o alla mensa di Atwater, e ti si ghiaccia tutto, giù giù, fino in fondo alle ossa.
Sono già nove giorni che mi trovo qui. Le lezioni sono iniziate, ho rivisto volti noti, camminato per vecchie strade e cercato di ricordare come mi sentivo allora. Avere la Nina con me cambia tutto. Ma non è solo quello a trasformare le cose. Quel senso feroce di solitudine, quel meraviglioso feroce senso di solitudine non c’è più. Si è frantumato fra cellulari, skype e wifi. L’isola è sparita. Non mi sento più sbalzata fuori dal mondo, via da tutto, persa e libera. Piuttosto sono qui, eccomi, pigliatemi e guardate che c’è da vedere. Allo stesso tempo tutto per ora mi scorre addosso in modo superficiale. Non c’è nulla che mi sembri davvero di trattenere; mi pare di guardare tutto da fuori, come in attesa di vedere accadere qualcosa. Un Drogo vermontiano che sta alla finestra. Ho delle mancanze forti. Di amici che stavolta non ci sono, di luoghi amati, di casa. Per esempio mi manca il Grill, anche se il Grill esiste ancora: eppure me l’hanno rubato, è rimasto fermo e vuoto in qualche anno imprecisato di quelli che ho perso e ciao, dove lo ripesco, io, adesso?
Quello che amo però è sempre lo stesso: il mutare continuo e sorprendente delle nuvole, le passeggiate sfiancanti in paese e il brunch oltraggioso del fine settimana. Rintanarmi in una biblioteca, girare senza meta là dentro solo per vedere quanto tutto è bello e ordinato e comprensibile. Tutti quegli studenti che leggono o dormono piegati su un computer, che portano via le banane dalla mensa, che hanno attaccato al collo il cordino con la scritta Middlebury College; e le chiavi che dondolano. Il caffettone nel bicchiere di cartone. Shaw’s e i suoi scaffali pieni zeppi di tutto. La voce di Joe. Mi piace stare qui. E’ un posto che mi appartiene e quello che era una volta mi manca. Però magari poi lo ritrovo, chissà. Un po’ com’è successo ieri che fuori pioveva, le luci in casa erano basse e uno dormiva sulla poltrona, l’altra cantava con la sua vocina e tutti bevevano Redwood creek dentro enormi bicchieri rossi. Anche quelli, i bicchieri rossi, non sono cambiati.
Questo è un luogo esagerato; e mi piace. Se piove, o ti rinchiudi in casa oppure esci ma l’ombrello che lo pigli a fare. Tanto l’acqua ti sciaguatta tutto, ti sbatte in qua e in là e mica puoi difenderti. Il sole invece brucia sulla pelle, cammini come sotto una lente di vetro puntata addosso, ti lasci arroventare finché non entri nella Davis family library, o alla mensa di Atwater, e ti si ghiaccia tutto, giù giù, fino in fondo alle ossa.
Sono già nove giorni che mi trovo qui. Le lezioni sono iniziate, ho rivisto volti noti, camminato per vecchie strade e cercato di ricordare come mi sentivo allora. Avere la Nina con me cambia tutto. Ma non è solo quello a trasformare le cose. Quel senso feroce di solitudine, quel meraviglioso feroce senso di solitudine non c’è più. Si è frantumato fra cellulari, skype e wifi. L’isola è sparita. Non mi sento più sbalzata fuori dal mondo, via da tutto, persa e libera. Piuttosto sono qui, eccomi, pigliatemi e guardate che c’è da vedere. Allo stesso tempo tutto per ora mi scorre addosso in modo superficiale. Non c’è nulla che mi sembri davvero di trattenere; mi pare di guardare tutto da fuori, come in attesa di vedere accadere qualcosa. Un Drogo vermontiano che sta alla finestra. Ho delle mancanze forti. Di amici che stavolta non ci sono, di luoghi amati, di casa. Per esempio mi manca il Grill, anche se il Grill esiste ancora: eppure me l’hanno rubato, è rimasto fermo e vuoto in qualche anno imprecisato di quelli che ho perso e ciao, dove lo ripesco, io, adesso?
Quello che amo però è sempre lo stesso: il mutare continuo e sorprendente delle nuvole, le passeggiate sfiancanti in paese e il brunch oltraggioso del fine settimana. Rintanarmi in una biblioteca, girare senza meta là dentro solo per vedere quanto tutto è bello e ordinato e comprensibile. Tutti quegli studenti che leggono o dormono piegati su un computer, che portano via le banane dalla mensa, che hanno attaccato al collo il cordino con la scritta Middlebury College; e le chiavi che dondolano. Il caffettone nel bicchiere di cartone. Shaw’s e i suoi scaffali pieni zeppi di tutto. La voce di Joe. Mi piace stare qui. E’ un posto che mi appartiene e quello che era una volta mi manca. Però magari poi lo ritrovo, chissà. Un po’ com’è successo ieri che fuori pioveva, le luci in casa erano basse e uno dormiva sulla poltrona, l’altra cantava con la sua vocina e tutti bevevano Redwood creek dentro enormi bicchieri rossi. Anche quelli, i bicchieri rossi, non sono cambiati.
Iscriviti a:
Post (Atom)